Festival Internazionale del Film di Roma 2013: uno sguardo nell’insieme
Un’annata particolarmente “festivaliera” si conclude ormai. Finalmente dopo anni di tanta sonnolenza un’edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella quale il cinema si anima dell’essere cinema, con i suoi autori, i suoi film, che sono “Film”, nel bene e nel male. Cinema d’autore, problemi e vita vengono raccontati in opere che ricercano l’effetto della visione, del mezzo in sé, indipendentemente dalle storie e dalle emozioni, ma ci sono anche quelle fra le maglie di tanto formalismo, buono, al quale abbiamo assistito in questi lunghi giorni. Russi, giapponesi, cinesi, spagnoli, persino gli americani e forse un paio di italiani hanno dato al loro pubblico quelle emozioni che forse in questi otto anni non si subodoravano da tempo o forse non si sono mai subodorate. Insomma, questo festival quest’anno ci è piaciuto e Marco Müller è tornato al suo splendore veneziano dopo l’ecatombe dello scorso anno nel suo primo anno capitolino. Ci ha regalato un Álex de la Iglesia in ottima forma con Las brujas de Zugarramurdi, emozioni dall’Oriente con Blue Sky Bones (che ha ricevuto meritatamente una menzione speciale), opera prima del musicista Cui Jian. Il cinema vive nella moria di questo mondo in frantumi, lo racconta bene Aleksey German, scomparso lo scorso febbraio, nella sua ultima estrema opera, Hard to be a God, che fa dell’estetica e della violenza, delle viscere umane il senso stesso del suo cinema, ricercato, a conti fatti pesante, ma puro cinema di un mondo che sembra non farne più. Dove la vita e soprattutto la morte fuoriescono come un lento supplizio per far capire alla fine che la gioia dopo il dolore può generare la consapevolezza della bellezza. Ma dove trovare la gioia? La bellezza di essere ancora in grado di amare il cinema di oggi, la vita che esso genera, la funzione ludica prima e culturale poi per il quale è stato concepito in questi ultimi 118 anni.
Il cinema, sì, ha 118 anni, dovrebbe essere vecchio, ma in questa ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma sembra finalmente, dopo cancrene, morti e malattie, risorto dalle ceneri di una città che di per sé trasmette morte e infelicità, vecchiaia e fine. Certo sembrava partito malissimo con il film di apertura Fuori Concorso di Giovanni Veronesi, L’ultima ruota del carro, ennesimo cerchiobottismo del dolore italiano degli ultimi quarant’anni, ma è risorto anche nella bruttezza del cinema italiano con opere claudicanti, come Il venditore di medicine del clan radical chic condotto da Marco Travaglio & Co. che si fa dirigere da Antonio Mirabito, film dove riciccia fuori un Santamaria un po’ sperso e un po’ no, o pessime come Border, che racconta la questione siriana con tanta arroganza di mantice produttivo, dove figurano un po’ di personaggi del nostro mondo dello spettacolo e del giornalismo, di chi non conosce veramente quel posto. Un’opera che ci fa comprendere come sia necessario che il cinema e l’arte si debba porre come tassello di un racconto proprio, personale, inequivocabilmente conosciuto, ma bene, bene davvero. E tale Alessio Cremonini non è riuscito a far questo. Ma lo ricordiamo, come a Venezia con Sacro GRA, anche a Roma è stato un docu-film e soprattutto italiano a vincere il premio come miglior film e ancora una volta una storia sulla “strada”, la vita di un gruppo di camionisti in giro per l’Europa con Tir di Alberto Fasulo.
L’apprezzamento invece parte e ritorna con altre storie, dall’America si apprezza un film diretto da un canadese, il cui nome Jean – Marc Vallée è sinonimo di un esordio commovente di qualche anno fa come C.R.A.Z.Y e del discreto biopic The Young Victoria, qui invece è con Dallas Buyers Club (premio del pubblico), asciutta e pulita pellicola che racconta i primi anni del dramma dell’AIDS, gli anni di Reagan, attraverso la figura di Ron Woodroof, interpretato da un Matthew McConaughey, che dopo vent’anni di carriera sembra aver trovato finalmente la grazia e la luce della recitazione (quando questo è successo?) e non a caso ha vinto il premio come miglior interpretazione maschile. Si ama meno l’opera seconda di uno Scott Cooper, Out of the Furnace, vendetta contemporanea in ambito dell’ultimo scorcio dell’America delle acciaierie e della solitudine fra desolazione e combattimenti clandestini, dove la vita vale molto poco, anzi nulla, specie la propria, consumata dall’ombra di un Paese che con l’Iraq ripete la storia del Vietnam: un’altra generazione perduta. Non è Il cacciatore, o forse vorrebbe esserlo, ma alla fine Out of the Furnace suona come qualcosa di già visto, sentito. Eppure è Premio Taodue Camera d’Oro per la Migliore Opera Prima/Seconda. Bah!
Commuove invece per la sua freddezza calda l’ultimo Spike Jonze, Her, ma forse avrebbe dovuto commuovere diversamente, ma piace, piace per come racconta l’indifferenza e il tempo di un amore verso un sistema operativo. Eppure, suggerisce l’autore, dovremmo tornare indietro e amare sempre e comunque. Joaquin Phoenix in stato di grazia e una Scarlett Johansson dalla voice over strepitosa fanno capire che per lei forse il doppiaggio è l’unica vera strada per una carriera dignitosa (non a caso è stata conclamata migliore attrice del festival). Ma Müller ci da un’altra consapevolezza, anche gli scandinavi possono fare del brutto cinema quando affrontano bergmanianamente la morte e la violenza di una bambina di nove mesi uccisa dalla madre, l’esempio è Sorrow and Joy, dramma raccontato con inappropriata superficialità. E poi ci sono Jonathan Demme con Fear of Falling, il prolifico Takashi Miike con The Mole Song, il breve ma intenso Seventh Code che è premio per la regia di Kiyoshi Kurosawa, il documentario Fuoristrada di Elisa Amoruso, occasione sprecata per la bella storia di Beatrice, un transessuale romano che lavora come meccanico, Horokazu Kore-Eda con I Wish e Like Father, Like Son (in concorso a Cannes)… E tanto tanto altro ancora. In ogni caso una bella edizione dove il cinema, nel bene e nel male, ha risposto: “Presente!”
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